Mite ma di governo. Magister vede un Papa tutt’altro che rinunciatario

Mite ma di governo. Magister vede un Papa tutt’altro che rinunciatario

31 maggio 2012 - Paolo Rodari

Dentro la tempesta denominata Vatileaks, Benedetto XVI si mostra calmo e sereno. Conferma la fiducia ai propri collaboratori – “Rinnovo la mia fiducia e incoraggiamento ai miei più stretti collaboratori e a tutti quelli che quotidianamente con fedeltà, spirito di sacrificio e in silenzio mi aiutano nell’adempimento del mio ministero” ha detto ieri al termine dell’udienza generale in piazza San Pietro – e ricorda che molte ricostruzioni dei fatti che stanno scuotendo la Santa Sede oggi sono “illazioni amplificate” e “del tutto gratuite”, illazioni che vanno “ben oltre i fatti, offrendo un’immagine della Santa Sede che non risponde alla realtà”.

 

L’impressione è che egli sappia bene che un tentativo di golpe sia sostanzialmente in atto. Un golpe non contro di lui, ovviamente, quanto contro il segretario di stato vaticano, il cardinale Tarcisio Bertone. Oggi egli rinnova a Bertone la propria fiducia – lo fa anche per dare un segnale ai dissidenti interni per i quali sembra sia stata avviata una procedura di rogatoria all’Italia – e aspetta l’evolversi delle indagini.

Secondo molti questa mitezza, quasi un’arrendevolezza, del Pontefice, sarebbe un tratto caratteristico del suo governo. Egli non si muoverebbe perché il suo intento sarebbe quello di tornare a una chiesa di retrovia che tanto aveva patito nel messianico pontificato del suo predecessore Giovanni Paolo II. Una chiesa meno politica e più spirituale, dunque, dove certe battaglie condotte direttamente nel cuore della società e dei suoi problemi siano ridimensionate. Una riflessione, questa, che non convince il vaticanista di lungo corso Sandro Magister. Dice: “Sono in disaccordo con chi vede in questa mitezza del Pontefice un segno della volontà di ritirarsi e di ritirare la chiesa in una specie di eremo. Non condivido questa visione perché se è vero che lo stile di Benedetto XVI è misurato, e insieme cortese, è anche vero che da quando egli è salito al soglio di Pietro ha messo in campo scelte dure e dirompenti soprattutto dal punto di vista normativo. Insomma, mitezza di stile ma anche grande decisione nel governo. Sono state queste decisioni, infatti, le cui conseguenze sono state evidentemente soppesate dal Papa, che hanno portato la chiesa a crisi significative interne. Ragioniamo: oggi tutti sono concentrati sulla fuga di documenti dal Vaticano verso l’esterno, ma la crisi attuale ha avuto il suo culmine anzitutto con la sfiducia comminata dal Board dell’Istituto per le Opere di religione al banchiere Ettore Gotti Tedeschi. La sfiducia è figlia di una decisione dirompente presa dal Papa sul piano normativo. Quale? Il Motu proprio del 30 dicembre del 2010 dedicato alla “prevenzione e al contrasto delle attività illegali in campo finanziario e monetario”. Quel Motu proprio portò alla creazione dell’Autorità d’informazione finanziaria (Aif) presieduta dal cardinale Attilio Nicora. L’Aif ha lavorato per la redazione della legge dedicata proprio alla trasparenza finanziaria (la legge numero 127) che avrebbe dovuto permettere al Vaticano di entrare in tempi relativamente brevi all’interno della White list dei paesi più virtuosi. Questa legge ha creato attriti. Ha diviso le posizioni, ha acuito le distanze tra i cardinali Nicora e Bertone. E Gotti Tedeschi, che ha lavorato in sintonia con Nicora, ha dovuto abbandonare il campo. Ora la domanda è: il Papa sapeva il pandemonio che avrebbe creato con questo Motu proprio? La mia risposta è sì. Sono scossoni che lui assesta volutamente alla curia romana, sperando che qualcosa cambi”.

Il Papa assesta scossoni, dunque, però poi non interviene quando le faide interne battagliano in campo aperto. Dice Magister: “Il Papa credo conosca bene ogni situazione interna. E ogni persona che lavora nella curia romana. Ma non è nel suo stile punire i comportamenti sbagliati con decisioni immediate. Sugli uomini ha il passo lungo, insomma. Ma ciò non toglie che sul piano normativo, e dunque sulla sostanza del governo della chiesa, egli sappia cosa fare. La stessa cosa l’ha dimostrata nel 2007 quando uscì un altro dirompente e significativo Motu proprio”.

Era il 7 luglio del 2007 quando Benedetto XVI firmò il Motu proprio Summorum Pontificum. Liberalizzò la messa in latino e, di fatto, aprì la strada a un ritorno – oggi ancora tutto da concretizzarsi – degli scismatici lefebvriani alla comunione con Roma. Scoppiò il finimondo dentro e fuori la chiesa. “Il Papa torna al medioevo” scrissero in molti. Dice Magister: “Il Papa sapeva quello che faceva e soprattutto era consapevole del polverone che andava a sollevare. Fu un potente atto di governo anche quello”. Poi, certo, “ci sono anche altre decisioni, come quella che sta al fondo dei dissidi interno alla curia in questo momento e cioè la scelta del segretario di stato nella persona di Bertone. In molti si chiedono perché non lo cambi, se davvero le cose vanno male anche per colpe sue. A mio avviso un cambio potrebbe avvenire nel giro di qualche mese. Ma che cambi o meno la sostanza resta: le crisi sono dovute all’attività normativa del Papa, un uomo mite ma insieme di governo”.

Pubblicato sul Foglio giovedì 31 maggio 2012

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